Volete un argomento per mettere in crisi i Testimoni di Geova che bussano alla vostra porta?
Eccolo: Giovanni 6,52 e ss.
Il fondamento su cui si regge tutta la fede cattolica è la celebrazione del mistero dell'Eucaristia:
la Chiesa crede che nelle specie del pane e del vino sia presente realmente il corpo e il sangue di Cristo: se si mette in discussione questa verità crolla tutto l'edificio della fede.
Ebbene, i Testimoni di geova contestano, tra le altre cose, proprio questa verità di fede, affermando che le parole di Gesù nel brano del vangelo di Giovanni, capitolo 6 - versetti 52 e seguenti, non possono essere interpretate come fanno i cattolici, perchè il Signore avrebbe inteso attribuire soltanto un senso simbolico alla sua "carne e sangue".
Che Gesù abbia realmente promesso un vero cibo e una vera
bevanda, che sono il suo corpo e il suo sangue, emerge però chiaramente da tre fattori:
a) il
realismo delle espressioni usate.
I termini utilizzati sono così vivi che non
ammettono ambiguità o interpretazioni allegoriche.
Le espressioni “mangiare la carne” e “bere il sangue”,
specialmente se paragonate col il testo greco (troghein: masticare con i
denti), significano un vero mangiare;
inoltre, queste due espressioni sono usate per
ben tre volte univocamente (vv. 53, 54, 56).
b)
l'inammissibilità del senso metaforico.
Tutta la terminologia del capitolo VI è
sacrificale e richiama continuamente le espressioni dell’ultima cena; analizzando
lo stile biblico, le espressioni di Gesù, se intese simbolicamente, non avrebbero alcun senso.
Pensare che le parole di Gesù con simile
significato morale potessero esprimere soltanto la necessità della fede in Lui
è inconsistente, anzi è contro ogni regola di buona interpretazione attribuire un significato che egli non intendeva e che i suoi uditori stessi non comprendevano.
c) L’atteggiamento degli uditori e dello stesso
Cristo.
Il realismo delle espressioni considerate
riceve ancora maggiore risalto dall’atteggiamento di Gesù di fronte ai suoi
ascoltatori: giudei, discepoli, apostoli.
I giudei (increduli e avversari di Gesù)
intesero le parole in senso letterale, cioè nel senso di cibo reale, e appunto per questo discutevano tra
loro: “come può costui darci la sua carne da mangiare?” (v. 53).
La linea di condotta di Gesù, come si
rileva da tutto il Vangelo, è sempre stata chiarissima:
quando gli ascoltatori avevano male
compreso le sue parole, poneva ogni cura nel dissipare l’equivoco (ad es.
Giov. 3, 3-8, o Mt. 16, 6-12), ma quando le avevano comprese rettamente, senza
però aderirvi per la difficoltà intrinseca del loro contenuto, non modificava
il suo discorso, ma ribadiva in vari modi la stessa idea (per es. Mt. 9,2-7,
Giov. 8,51-58; 10,31-38).
In questo caso però Gesù non modifica le
sue affermazioni, ma per tre volte insiste sullo stesso concetto con maggior
forza affermandolo anzi più esplicitamente e in maniera solenne ("in verità vi
dico…" v. 53), ribadendolo con parole più realistiche e ripetendo per sei volte
che la sua carne doveva essere vero cibo per la salvezza delle anime.
Non è possibile, perciò, che Gesù, se
avesse voluto dare alle sue parole un senso metaforico, abbia ripetuto con
tanta insistenza le stesse frasi così male interpretate dagli uditori per
confermarli nel loro errore
Ma v’è di più
Finito il discorso e allontanatisi i
giudei, Gesù si trova di fronte all’incredulità dei suoi stessi discepoli, alcuni dei quali addirittura lo abbandonano scandalizzati; ma
anche in questo caso, davanti al disagio intellettuale dei discepoli, Cristo non cambia
nulla del suo discorso: e neppure da altri
passi del Vangelo (in colloqui privati con i discepoli) risulta che abbia
attenuato la gravità delle sue parole; anzi, con la pazienza tutta sua verso
chi non intendeva in buona fede, cerca di aiutarli a comprendere (vv. 61-63),
ma non modifica le sue parole di una virgola: aggiunge solo una spiegazione ulteriore sul
modo (cercando di spiegare loro che non gli sta chiedendo di diventare
cannibali, perché la sua carne non può dare la vita se non è unita allo
spirito; perciò quello che dovranno mangiare è carne animata dalla divinità: solo
così essa darà la vita).
Gesù chiede in definitiva ai discepoli un
atto di fede e di umiltà, ribadendo la necessità di mangiare la sua carne e bere il suo sangue,
anche se ancora non ne comprendono il senso; la reazione dei discepoli però è
per lo più di incredulità (da allora molti si ritrassero e non andavano più con
lui: v. 66).
Non è possibile pensare allora che Gesù, se le sue parole avessero avuto solo un significato simbolico,
abbia permesso tale disorientamento senza avvertire la necessità di chiarire il
presunto malinteso.
Infatti, nei confronti degli stessi apostoli non cede di
un millimetro: “anche voi volete andarvene?”; sembra addirittura provocarli.
Nè la spiegazione che danno i Testimoni di geova, secondo cui Gesù con questo particolare comportamento avrebbe voluto
vagliare i veri discepoli dai falsi, risulta plausibile, perché se così fosse stato (e
cioè se le sue parole servivano soltanto a provare i discepoli) Gesù dopo la
prova avrebbe però chiarito che il senso di quelle parole era solo questo e non
altro, e invece non lo fa mai, lasciando che la sua chiesa nasca, cresca e si sviluppi sul fondamento dell’Eucaristia.
Condizione essenziale per seguire Gesù è l’umile
assenso della mente a una verità superiore alla capacità di comprendere degli
uomini.
Davanti a questa pietra di scandalo i
giudei si ritirano; molti discepoli si allontanano; Giuda prepara il
tradimento, ma Pietro, pur non avendo compreso neanche lui la portata delle parole di Cristo sull'Eucaristia, reagisce con umiltà e confessa: “da chi andremo Signore? Tu hai parole di vita
eterna!”
E’ qui prefigurata la storia della Chiesa
che, ferma e sicura con Pietro, suo capo visibile, professa costantemente la
sua adesione a Cristo, pane di vita, in mezzo alla derisione dei nemici della
fede ed alle negazioni degli eretici.