Oggi ricorre l'onomastico del mio cognome.
In realtà l'Annunziata si festeggia il 25 marzo ma, siccome quest'anno cadeva di domenica, la festa è stata spostata ad oggi.Vi ho già parlato del particolare feeling che mi lega a Maria (l'espressione del viso).
La parola Annunziata, però, mi ricorda anche i primi anni di scuola, quando la maestra scorrendo il registro la pronunciava prima di sottopormi a prove spesso superiori alle mie forze.
La scuola è sempre stata un grande veicolo per guardarsi dentro, grazie allo spietato confronto con gli altri che ti costringe ad affrontare. Per la mia vita, in particolare, sono stati fondamentali gli anni della scuola elementare. Posso dire, senza timore di sbagliare, che sono arrivato a laurearmi vivendo di rendita, grazie al capitale di studio e sofferenza accumulati durante i cinque indimenticabili anni della mia scuola elementare.
La nostra maestra era una donna all’antica, devota e severissima; aveva donato le migliori energie della sua vita all’insegnamento ed i risultati erano davanti agli occhi di tutti: le famiglie del paese facevano a gara per iscrivere i loro figli nella sua prima classe. I ragazzi che avevano fatto le elementari con lei, infatti, una volta arrivati alle medie si trovavano ad essere una spanna sopra gli altri in tutte le materie: ci si arrivava, tuttavia, solo alla fine di un percorso estremamente formativo e molto doloroso. Non lasciava nulla al caso o, peggio, all’improvvisazione; aveva coraggio nella sperimentazione di nuovi metodi di apprendimento ed era molto esigente con i suoi alunni. Non si ammalava praticamente mai ed in cinque anni ci avrà portati soltanto una o due volte in palestra, e non certo per esercizi ginnici ma semplicemente perché non era riuscita a sottrarci alla tradizionale foto di classe.
Quell’anno la prima elementare era piena di bambini che “promettevano” grandi cose per il futuro e, pertanto, le comari del paese impiegavano parte non marginale del loro prezioso tempo per stabilire chi sarebbe stato il “campione”.
In questa inevitabile competizione io partii decisamente svantaggiato.Ero di una timidezza ai limiti del patologico. Arrossivo come un peperone appena mi trovavo al centro dell’attenzione generale, cosa che avveniva spesso a motivo della mia statura, insolitamente alta per l’età, per cui la maestra mi costringeva ad alzarmi in piedi appena entrava in classe un ospite cui poter mostrare la “bestia rara”. Il fatto di essere così timido, inoltre, mi conduceva a chiudermi in me stesso e sperimentare una grande difficoltà nella manifestazione dei miei sentimenti. Come se non bastasse, poi, ero anche affetto da una leggera forma di balbuzie, circostanza che generava l’ilarità generale ogni volta che aprivo bocca.
Il risultato era a prima vista sconcertante: ero un bambino insolitamente taciturno per l’età che avevo e manifestavo grandi difficoltà di relazione con il mondo circostante. Anche la maestra, infatti, cominciò ad avanzare qualche dubbio sulla mia sanità mentale, circostanza che dovette allarmare non poco i miei genitori considerato che tra i molti esami cui mi sottoposero ci fu anche qualche visita psichiatrica: quanto li ho fatti soffrire.
Per fortuna non emerse alcuna patologia invalidante, forse con la crescita avrei risolto da solo i problemi relazionali che mi attanagliavano. La cosa che mi pesava di più, comunque, era l’impossibilità di esprimere il mio mondo interiore: ero incapace di manifestare la mia affettività; mi riusciva difficile persino piangere, cosa insolita per un bambino di prima elementare: nei cinque anni del primo ciclo scolastico non ricordo di aver mai pianto. Anche il rendimento scolastico risentiva di questo mio stato d’animo, con particolare riferimento ai componimenti d’italiano, dai quali risultava in maniera più evidente l’assenza di riflessioni personali e di spunti originali.
Questa penosa situazione continuò fino alla terza elementare senza sostanziali cambiamenti quando, un giorno, accadde un fatto che avrebbe determinato una svolta importante nella mia crescita interiore.
Mio padre mi si presentò con un libro in mano chiedendomi se avevo voglia di leggerlo: il libro era “I ragazzi della via Paal”. Fu probabilmente il primo libro di narrativa che lessi, e ben presto si rivelò il libro giusto al momento giusto, perché forse stavo attraversando una fase in cui non avevo bisogno d’altro che di un po’ di buoni sentimenti.
L’effetto che quel libro produsse in me fu sorprendente anche per gli altri, in primis per la mia maestra.
Fu come se una cisterna d’acqua fresca e zampillante venisse improvvisamente aperta nel bel mezzo di un deserto. Ero in terza elementare ed alla prima occasione, il tema d’italiano, inondai la carta di tutte le emozioni che la lettura del libro mi aveva suscitato: la maestra rimase senza fiato; l’iniziale diffidenza si trasformò quasi in innamoramento.
Cominciai a riversare tutta la mia interiorità, troppo a lungo rimasta inespressa, sulle pagine bianche dei componimenti in classe, e quello che a me sembrava una naturale manifestazione dei miei sentimenti, lasciava sbalorditi tutti gli altri. Non capivo, infatti, perché la gente si stupisse leggendo le cose che scrivevo.
Una volta la maestra ci diede da scrivere un componimento a tema libero ed io scelsi per titolo “La libertà”, volendo esprimere il desiderio innato dell’uomo di realizzare sé stesso. Apriti cielo; semplicemente la scelta del titolo fu giudicata come un evento sensazionale da tutto il personale scolastico, ed anche mia madre vedeva così risorgere il sogno, da lungo tempo accarezzato, che proprio suo figlio diventasse “il campione”. Non mi sono sentito mai a mio agio nei panni del campione e, ben presto, cominciai ad avvertire su di me troppe aspettative, con la conseguenza che l’inevitabile delusione non tardò ad arrivare.
Proprio quando stavo cominciando ad acquisire un po’ di sicurezza nei miei mezzi, infatti, arrivò l’esame di quinta elementare. Pensavo che la maestra mi avrebbe fatto domande facili, forte delle simpatie che ormai nutriva nei miei confronti.
Mi sbagliavo di grosso. Non bisogna mai confondere una maestra all’antica con una mamma; la prima domanda mi lasciò completamente spiazzato: “che cosa sono i terrazzamenti”? Rimasi di stucco: era la prima volta che sentivo pronunciare quella parola e non avevo la minima idea di cosa significasse.
La maestra rimase anch’essa sorpresa ed impiegò parecchi minuti per cercare di farmi tirare fuori la risposta, ma fu tutto inutile. Ignoravo cosa diavolo fossero i terrazzamenti e nessun indizio mi aiutò nella ricerca della risposta. L’esame si concluse nella delusione generale e, nonostante fossi stato comunque promosso al secondo ciclo di studi, purtroppo, o per fortuna, non riuscii a conseguire il titolo di campione.