Caterina era una ragazza un po’ buffa, dall’aspetto goffo e paffuto: quando era emozionata le si accendevano due lampioni rossi sulle guance e la viva luce degli occhi le faceva risplendere il volto.
Era il bersaglio preferito dei compagni di classe più spietati, poiché ogni volta che apriva bocca non riusciva mai a nascondere quanto immatura fosse ancora la sua percezione della vita.
Le sue compagne più sensibili non riuscivano a fare altro che trattarla come la sorellina più piccola e buffa, con la conseguenza che, pur di richiamare l’attenzione, Caterina accentuava ancora di più i suoi atteggiamenti infantili.
All’inizio cercai anch’io di essere gentile con lei, non raccogliendo le tante occasioni che l’ambiente scolastico offriva per mettere alla berlina i personaggi più goffi.
Lei colse subito il mio atteggiamento e mi elesse inaudita altera parte come fratello maggiore.
Ben presto, però, si rese conto che come fratello maggiore ero tutt’altro che accomodante, poiché cominciai a farle notare puntualmente l’idiozia dei suoi comportamenti e questo generava frequenti litigi tra di noi.
I miei compagni assistevano un po’ sorpresi ai nostri battibecchi; risultava loro incomprensibile il fatto che perdessi tanto tempo dietro ad una simile creatura.
Le compagne, invece, giudicavano troppo brusco e poco delicato il mio modo di trattarla; Caterina, dal canto suo, dava l’impressione di aver compreso che mi stava a cuore sinceramente la sua maturazione, per quanto dolore potessero arrecarle i miei modi.
Le schermaglie andarono avanti per parecchi mesi tra discussioni e pianti, finché un giorno mi accorsi che la bambina era finalmente cresciuta.
Per qualche tempo la scoperta non mutò i nostri rapporti; continuavamo a litigare come per inerzia, ma sempre con maggiore soddisfazione reciproca.
Un giorno, al termine dell’ennesima discussione, la guardai negli occhi e le dissi: ”sei cambiata Caterina”.
Lei, allora, si volse verso di me e con uno sguardo malinconico rispose: ”Sei l’unico che se ne è accorto”.
Alla fine del liceo la persi di vista, ma non dimenticai mai quelle parole.
La incontrai, per caso, dopo alcuni anni e stentai a riconoscerla: era diventata esile quanto lo stelo di un fiore.
Compresi, allora, il dramma che stava vivendo: l’avevo addestrata a tirare fuori gli artigli contro di me ed ecco che adesso li aveva rivolti verso il suo aspetto fisico. La tigre stava sbranando se stessa!
“Sono contento di vederti”, le dissi trattenendo a stento l’emozione; “anch’io”, rispose, abbozzando un lieve sorriso.
Restammo pochi minuti a parlare, nel bel mezzo di una strada affollata da gente che si agitava per le ultime compere natalizie e ci lasciammo con la promessa di rivederci presto.
Si smette di mangiare o per troppo amore o per troppo dolore, oppure perché il proprio aspetto fisico, che spesso viene identificato con il peso corporeo, è divenuto l'unico vero grande valore dell'esistenza.
Quando ci si innamora, infatti, si perde temporaneamente la sensazione dell’appetito: il cuore è talmente pieno che sembra impedire che entri qualsiasi altra cosa nel nostro corpo.
Per fortuna in questi casi l’appetito ritorna appena l’innamoramento si “normalizza” e l’entusiasmo affettivo viene incanalato entro binari ordinari.
Più distruttiva è l’anoressia che nasce da quello scontro frontale con la vita rappresentato da un evento particolarmente doloroso e traumatico che scuote le fondamenta dell’esistenza della persona.
Mai come in questo caso, dunque, quel pallone gonfiato che siamo noi tutti, invece di continuare a gonfiarsi di cose inutili, comincia lentamente a sgonfiarsi, fino a che non resta più niente, neanche la forza di sopravvivere.
Una settimana dopo l’incontro con Caterina, l’impronta della morte sul suo viso continuava a tormentarmi e così decisi di rivederla: non potevo accettare che buttasse via così la sua vita.
Mi accolse senza molto trasporto e restammo a parlare a lungo dei tempi del liceo, dei vecchi amici e di come eravamo cambiati tutti.
Ad un certo punto l’abbracciai e, stringendola forte, tanto da sentire le sue ossa come aghi di spillo sul mio corpo, le dissi che non avrei trovato pace finché non l’avessi vista guarita, strappandole la promessa che avrebbe almeno provato a reagire.
Lasciandola le chiesi di chiamarmi ogni volta che avesse avuto bisogno d’aiuto: l’avrei raggiunta ovunque mi trovassi.
Non credevo che ce l’avrebbe fatta ed allora, ricordandomi dei fioretti che facevo da bambino per chiedere al buon Dio qualche cosa che mi stava particolarmente a cuore, decisi di smettere di fumare fino a che Caterina non fosse stata fuori pericolo; a quel tempo fumavo di gusto!
Tre mesi dopo mi arrivò una sua lettera in cui mi diceva che aveva finalmente ritrovato il gusto di vivere e concludeva: “tante persone in questi mesi mi hanno ripetuto sempre la stessa frase: ‘devi reagire prima che sia troppo tardi’.
Una sola volta, però, ho sentito che la persona che me la diceva avrebbe dato la sua vita per la mia.
Solo allora ho trovato la forza di reagire”.