lunedì 22 giugno 2020

storia di un albero

Il 17 maggio 2015, come alcuni di voi ricorderanno, c'è stato un incontro con amici bloggers a Verona, per molte ragioni indimenticabile.
Ad un certo punto della giornata ci siamo fermati sotto un albero davvero speciale ed io ve l'ho presentato così: "questa è la cosa più bella che abbiamo a Verona".
Mi ha reso felice il fatto che questo miracolo della natura abbia allietato anche il cuore degli amici presenti, al punto che alcuni di loro hanno improvvisato un valzer d'altri tempi sotto la chioma odorosa dei suoi rami.
Recentemente ho scoperto che questa meraviglia è stata dichiarata "Albero monumentale protetto dalla Regione Veneto", con tanto di targa esplicativa nella quale si evidenziano le caratteristiche essenziali di questo "Maestoso platano ibrido", incrocio tra la specie orientale e quella occidentale, di notevole interesse ambientale non solo per il suo apparato radicale profondo, ma soprattutto per l'età stimata: 230 anni, la circonferenza: 4,93 mt. e l'altezza: 35 mt.
Ma la cosa che impressiona di più è l'estensione della chioma, sotto la quale si rimane letteralmente a bocca aperta.
Io confesso che tutte le volte che ci passo davanti, il che avviene spesso poiché l'albero si trova in pieno centro (vicino piazzetta Pescheria), mi fermo diversi minuti a contemplarne la maestosità, esperienza che diventa per me quasi mistica.
Ho cercato di fotografarlo ma nessuna foto riesce a rendere la grandiosità di questo spettacolo della natura, perciò vi invito a venirlo a vedere dal vivo appena ne avrete l'occasione: sono sicuro che non ve ne pentirete.

giovedì 4 giugno 2020

paura di morire e voglia di vivere

Una frattura psicologica attraversa gli italiani mentre il lockdown finisce, si allentano le restrizioni fin quasi a scomparire, si aprono i confini, la vita fuori prende il sopravvento sulla clausura, la libertà sulla detenzione, il muoversi sullo stare immobili nella reclusione.
Una frattura trasversale, che fa a pezzi vecchie divisioni per suggerirne una tutta nuova: il partito della «paura di morire» contro quello dell’incontenibile «voglia di vivere», la sottile nostalgia del tutto chiuso contro la smania del tutto aperto.
Sono due psicologie, due modi di reagire alle devastazioni del virus, due mentalità che stanno affiorando mentre le sbarre, una ad una, vengono demolite. Due modelli culturali in cui non c’entra la destra e la sinistra. Forse conta l’anagrafe, visto che la «voglia di vivere» si fa strada soprattutto sui giovani. O forse conta la posizione sociale e lavorativa. Per il resto non usciamo tutti uguali e compatti nell’era delle riaperture. Ed esistono anche le sfumature, le oscillazioni, ipocondriaci terrorizzati da ogni malattia nei giorni dispari che si scoprono libertari e fatalisti nei giorni pari, o dall’altra parte creature squisitamente metropolitane e aperturiste per istinto che adesso vorrebbero sbarrare le porte di casa, mettere tutti dentro, ripararsi dalle incertezze della vita associata, assembrata, insofferente alle regole rigide del distanziamento sociale.
Il partito della chiusura ha orrore del pieno, equipara ad apocalittici assembramenti persino le passeggiate all’aria di tre, quattro persone insieme, se potesse metterebbe agli arresti domiciliari i giovani fanatici dello spritz, pensa a transumanze quando le frontiere tra le regioni verranno meno, vuole aspettare ancora, non si fida, deplora quest’ansia puerile di libertà, vorrebbe mettere gli anziani in quarantena permanente, pende dalle labbra dei virologi che in televisione si mostrano più pessimisti e sorride di compatimento con gli scienziati che si mostrano meno catastrofisti, aderisce in toto alle parole dei governatori delle regioni che ipotizzano frontiere regionali sigillate e schedature sanitarie di massa per isolare gli untori, diffida dei numeri troppo positivi quotidianamente somministrati dai media, dice che c’è il sommerso, che «è solo la punta dell’iceberg», che il ritorno del virus sarà devastante.
Poi c’è il partito della voglia di vivere che protesta per le misure troppo restrittive nei ristoranti, è insofferente alle distanze nelle spiagge, dice che la movida è uno sfogo sacrosanto dopo due mesi di carcere, ama gli scienziati che evidenziano la differenza, ovviamente benvenuta, con il prima, comincia a pensare che siamo sull’orlo di una «dittatura sanitaria», che il controllo sociale sui comportamenti dei cittadini nasconda inconfessabili pulsioni autoritarie, «non siamo come in Cina», pensa che i cittadini siano capaci di coniugare libertà con responsabilità, che le briglie sciolte sono la garanzia per ripartire, che la disperazione sociale provoca almeno tanta sofferenza quanto il Covid 19, vede la luce in fondo al tunnel, quando può abbassa le mascherine.
Le linee di confine tra i due partiti talvolta si confondono, in ciascuno di noi convivono due atteggiamenti opposti, la paura si mescola alla voglia di libertà, la prudenza si mischia con il piacere di vedere le città che poco a poco si riempiono. Ma basta una parola, talvolta solo un’occhiata per indovinare in quale delle due parti ci si colloca. Vengono fuori anche due diverse valutazioni del periodo di clausura appena trascorso. Nel partito dell’apertura al limite dell’irresponsabilità c’è l’incubo della pena carceraria, il ricordo straziante delle città deserte, morte, delle persone care separate per chissà quanto tempo, delle spie da balcone che urlavano contro i runner. Nel partito della paura trapela un’ansia di ordine contro il muoversi anarcoide delle persone lasciate a se stesse, la precauzione come filosofia di vita, la diffidenza verso gli esseri umani irresponsabili, bambini inclini alla disubbidienza da riportare nei canoni della disciplina, il silenzio della coesione comunitaria. Oggi, mentre l’Italia si riapre, questi due tipi di italiani si guardano un po’ in cagnesco. Due mentalità che si contrappongono. Eravamo tutti uguali in quarantena. Adesso che siamo liberi meglio divisi.             Pierluigi Battista, Corriere della sera