L’uomo occidentale è finito per carenza di stelle. L’uomo è fatto di
desiderio, ha bisogno di alzare lo sguardo a cercare le stelle,
de-sidera, ed è questa ricerca che lo tiene dritto in piedi, in vita.
È
questo lo spazio nel quale si infila la ricerca di infinito.
Ma, prima
ancora, è questo che lo muove nel desiderio di migliorarsi.
Per millenni
le narrazioni – da Omero in poi – sono stati racconti di come l’uomo,
l’eroe, cercasse di superare se stesso, di trascendersi, di cercare
fuori di sé qualcosa che lo eternasse.
A un certo punto l’uomo ha deciso che non aveva più bisogno di nessun
cielo sopra la sua testa, ha smesso di costruire cattedrali, ha
cominciato a pregare – i pochi che lo facevano ancora – in posti più
simili a garage che a chiese, senza liturgia, senza guglie che
portassero lo sguardo verso l’alto.
Ed è nato l’uomo funzionale
all’attuale modello di vita, di produzione di beni, di organizzazione
della vita pubblica: è un uomo che vive immerso in una palude di
soggettivismo assoluto – proprio così, viviamo in un ossimoro – in cui
ogni desiderio non solo può, ma ha il diritto di essere soddisfatto, e
ogni limite, anche quello biologico, è avvertito con fastidio come fosse
una costruzione fittizia, e non lo spazio che ci è dato di abitare.
È un uomo talmente liberato che non sa
più che fare della sua libertà: la liberazione sessuale, per esempio, ha
abbattuto il desiderio.
È un uomo solo, senza vincoli, senza legami,
senza storia, con pochissimi o zero figli (i figli sono controindicati,
ti costringono a risparmiare sui beni superflui, e se proprio devono
nascere decidi tu quando e come).
È un uomo che non ha lo sguardo verso
il cielo, verso le stelle, ma su se stesso, sul suo inconscio, sulle
paturnie o nevrosi, chiamiamolo come vogliamo (io e san Paolo preferiamo
dire “l’uomo vecchio”).
Un uomo che pensa di non avere bisogno di
essere guarito, salvato, redento. Un uomo che pensava che senza obbedire
a nessuno sarebbe stato meglio. E non basta la depressione generale a
insinuargli dubbi in merito.
Prima l’arte era bella perché parlava della ricerca di Dio, adesso
ritrae l’uomo che cerca se stesso, per questo è tendenzialmente brutta.
Prima la letteratura mostrava il corpo a corpo dell’uomo col suo destino
eterno, adesso si portano molto i racconti di piccole felicità trovate
nelle piccole cose (si vincono anche i premi Strega così), adesso è
l’epoca in cui un candidato al Nobel per la letteratura lancia l’idea di
scrivere i dieci motivi per cui vale la pena vivere, e mette in testa
la mozzarella.
È evidente, quando si vive per sé bisogna trovare in sé
le ragioni. Ma non è che reggano tanto.
Il punto è che noi siamo nani
coi trampoli, siamo creature di fango che il soffio di Dio ha reso poco
meno degli angeli. Noi da soli non siamo capaci di infinito, perché
veniamo dal cuore di Dio e lì vogliamo tornare.
Non che prima di questa idea di uomo la gente fosse tutta mistica,
protesa all’infinito.
Ma c’era un cielo sopra le teste, questo è sicuro,
e la vita aveva una sua pedagogia.
Era il tempo in cui il problema era
come fare a vivere, non trovare una ragione per farlo.
Quando si teme
per la propria sopravvivenza è più facile prendere atto del fatto che
non dipende da noi.
Quanto al tema di soddisfare tutti i desideri, il
problema non si poneva proprio (e il fatto di non soddisfarli li teneva
vivi). Anche quando non è stata in questione la sua sussistenza, l’uomo
viveva contenuto in una sorta di esoscheletro che lo teneva dritto,
norme e convenzioni definivano il recinto dei suoi limiti.
Aperto e scoperchiato tutto, l’unico antidoto alla morte per
estinzione dell’uomo occidentale è innanzitutto riconoscere e dichiarare
il proprio bisogno, dichiarare la propria vulnerabilità.
E può essere
quella la ferita aperta, divenuta feritoia, che fa passare Dio, l’unico
che può soddisfare il nostro infinito desiderio, quello per cui è fatto
il nostro cuore.
L’uomo secondo Cristo è un uomo meraviglioso, che fa
figli e migliora il mondo e lo feconda e lo costruisce per loro, che
salva il seme delle cose belle per i figli suoi e degli altri, che
protegge i deboli, che cura i malati, visita i carcerati.
L’uomo secondo
Cristo fa le cose bene, non è un cialtrone: il buon samaritano, che
Gesù stesso prende a esempio di amore per il prossimo, è uno che cura i
suoi affari, e grazie a questo ha i soldi per pagare un albergatore che
si prenda cura del ferito.
È un uomo che costruisce per domani perché
sa che qui non è che l’inizio della sua vita, che è eterna.
È un uomo
che si sa amato teneramente dal Dio che ha inventato gli atomi e i
ghiacciai, e il figlio del Re è padrone di tutto e libero, non ha nemici
perché ha già vinto, e sa che l’unica battaglia che gli rimane è quella
contro l’uomo vecchio, quella che gli impedisce di dire sì a Dio, e
riconoscersi veramente figlio. E felice.
Costanza Miriano (https://costanzamiriano.com/2017/08/17/la-fine-delluomo-occidentale-2/)