mercoledì 13 aprile 2016

la bellezza e il fango

Io vedo chiaramente che c’è in me una inclinazione al male con la quale non posso smettere di combattere.
La teoria la so tutta, so quello che devo fare, come e perché, lo so talmente bene che vado in giro a spiegarlo agli altri. Eppure non lo faccio.
Non quanto vorrei, potrei, dovrei.
So anche che c’è un vuoto, un bisogno, una nostalgia che non riesce a farsi consolare facilmente: anche la ricerca di intimità con il Signore mi rimanda a una disciplina, a una sorta di combattimento spirituale da fare tenendo la trincea, minuto per minuto.
Vedo anche che c’è un nemico che attivamente interviene nella mia vita, che mi insidia e mi tenta. Capisco chiaramente quanto sono incapace di amare mio marito come lui desidera essere amato (lo amo a modo mio, ma non basta), addirittura so che non sono brava ad amare i miei figli – che pure sono l’affetto più istintivo e viscerale che ho – come vorrei, come hanno diritto. Non parliamo poi dei miei genitori, dei fratelli, degli amici: è un amore povero, incostante, egoista il mio, così sproporzionatamente più piccolo di come lo vorrei.
Lo vedo, lo sperimento ogni giorno che senza lo Spirito Santo nulla è in me “nulla senza colpa”, neppure le “buone” azioni, perché come dice il Vangelo solo Dio è buono.
Riscopro ogni giorno l’intuizione che la vita secondo il battesimo è un’altra vita, che solo riesco a desiderare ma mai a compiere.
Vedo lo iato tra la bellezza possibile e quella che vivo, una sua ombra “confusa come in uno specchio”, direbbe san Paolo. Vedo, soprattutto, tanta bruttezza in me.
Ma proprio tanta. E non ho neppure la consolazione di San Francesco, o di san Giovanni Maria Vianney, a cui la grazia di vedere la propria bruttezza era concessa proprio da Dio (si dice che al santo Curato d’Ars fu concesso di vedere la sua anima nella verità, in una visione, e quasi svenne per quanto era piena di peccato). Ecco, loro vedevano perché erano ai vertici della santità, io sono mediocre anche nel vedere la mia bruttezza: cioè la vedo ma alla fine non è che mi dia tanta pena, mi ci accomodo abbastanza confortevolmente, e mi do da fare per migliorarla solo finché non fa troppo male…
Ecco perché c’è qualcosa che non mi convince nell’ansia che percepisco, tra diversi uomini di fede, di comunicare la buona notizia, il Vangelo, raccontandone solo la bellezza, tacendo della drammaticità della lotta, omettendo tutto ciò che possa anche lontanamente ricordare la croce, il dolore, la bruttezza, la fatica.
Non ho gli strumenti necessari a dare un nome a questa cosa: non so se si tratti di una corrente teologica, di una scelta pastorale, oppure di una strategia solo comunicativa (a chi è lontano tu cerchi prima di parlare della bellezza, poi casomai della fatica che tocca fare per vestirsene stabilmente). Non posso neppure dire che si tratti di un errore, perché se guardo ai sacerdoti che compiono queste scelte penso sempre che hanno una sapienza e una conoscenza di molto superiori alla mia, che ho solo, come dicevo, il mio sensus fidei.
Sono certa che chi sceglie di mettersi di fronte al mondo usando uno stile che definirei eufemistico, lo faccia perché vuole stare in una posizione amica, vuole conquistare non per piacere ma per entrare nei cuori e, da dentro, condurli a Cristo.
Mi chiedo solo questo: funziona? Serve dire della bellezza a persone che non la sperimentano?
E soprattutto, se c’è del bene in tutto, nel mondo, nei nostri cuori, in tutte le nostre vicende, a cosa serve il battesimo? Io posso dire che se qualcuno venisse a dirmi solo quanto è bella la vita e quanto è facile salvarsi io penserei che allora forse sono sbagliata io, perché questa bellezza non mi balza agli occhi con tanta evidenza, e devo scavare nel fango come Bernadette alla ricerca dell’acqua.
Posso dire che a tante delle donne che incontro, che mi raccontano fatica e dolore e dubbio e scoramento e difficoltà e tradimenti grandi e piccoli, io cerco di dire non che amare è bello e facile, ma che è l’acqua che si trova scavando, se si vuole amare veramente, ma veramente, tutti quelli che ci sono dati.
Io capisco l’ansia di tanti di superare le ostilità col mondo, di far cadere le inimicizie, di aprire e dialogare e fare ponti, ma il problema è che il nemico ce l’ho io, dentro di me, e la vita che mi è data, con la sua croce che ogni giorno viene fornita col pacchetto base, è esattamente l’unica occasione che ho di entrare in un’altra qualità di vita, in un altro livello di amore, quello secondo Cristo, che a volte è persino contro il nostro sentimento.
È per questo che sto imparando sempre di più a diffidare di me stessa, e vorrei tanto una buona volta entrare in un cammino di fede e obbedienza, dove cominciare (sarà ora, forse, alle soglie della terza età) ad ascoltare un’altra voce che non sia la mia, della quale diffido sempre di più man mano che la conosco.
Questo è quello che vivo, questo è quello che so. E posso dire, semplicemente, che a me chi parla solo di bellezza senza parlare di fango non è molto utile.

Costanza Miriano (costanzamiriano.com)

martedì 12 aprile 2016

apologia del semaforo rosso

Ieri mattina sono uscito di buon’ora per un appuntamento.
Ero in ritardo, avevo fretta e il solito semaforo vicino casa era rosso.
Conosco bene quel semaforo, ci passo sempre: è inutile, perché all’incrocio c’è perfetta visibilità di tutte le strade e non c’è grande traffico.
Così, come altre volte al mattino del sabato quando non c’è movimento, guardo bene da tutte le parti, mi sporgo lentamente nell’incrocio superando la striscia dello stop e osservando bene che nessuno arrivi, poi passo velocemente.
Purtroppo ieri mattina cento metri dopo il semaforo c’era nascosta una pattuglia della polizia. Paletta rossa, richiesta di patente e libretto e, nel giro di pochi secondi, multa e decurtazione di punti.
Allora provo a far ragionare il poliziotto che ho di fronte:
è vero, dico, sono passato con il rosso, è un’infrazione grave; ma conosco bene quel semaforo, ho guardato attentamente prima di attraversare, e poi sono stato spinto anche dalla fretta perché quell’appuntamento per me è fondamentale e non posso arrivare tardi. «Ma lei ha infranto una legge, sapendo di farlo e volendo farlo - mi risponde il poliziotto – le sue motivazioni non interessano: questo è il fatto oggettivo e a questo stiamo».
«È vero, ma lei non mi può giudicare allo stesso modo di un altro che arriva a 100 all’ora senza neanche fermarsi», replico io. Stessi soldi da pagare e stessi punti decurtati, non è giusto, i casi sono ben diversi. Il poliziotto mi guarda attento, penso di averlo inchiodato con la mia logica. Ci pensa un po’, poi mi risponde: «Caro signore, io la sto multando non perché giudico le sue intenzioni o il modo in cui ha attraversato l’incrocio, ma semplicemente perché l’ha fatto. Vede, sono sulla strada da molti anni e so benissimo che i motivi per cui si commettono queste infrazioni sono innumerevoli e ci sono tante attenuanti o aggravanti, ma immagini cosa accadrebbe se accettassimo che in alcuni casi si può passare con il rosso (e chi li decide poi?): sarebbe il caos, diventerebbe impossibile far svolgere ordinatamente il traffico e sarebbe un incentivo per chi vuole trasgredire mettendo a repentaglio la sicurezza di tutti».
A questo punto sono io che accuso il colpo, ma all’improvviso l’illuminazione. Fortunatamente arrivo da due giorni in cui ho letto l'esortazione apostolica Amoris Laetitia, e soprattutto i commenti di noti teologi, li ho tutti con me. Li prendo e spiego al poliziotto: «Vede, la sua teoria è astratta e ideologica perché considera solo la norma oggettiva – che non discuto – ma non tiene conto delle singole persone che passano con il rosso: delle preoccupazioni e delle ansie che li spingono a commettere l’infrazione, della prudenza con cui lo fanno cercando di non recare danno ad alcuno, del fatto che date le condizioni in cui sono questo è il massimo che possono fare anche se l’ideale sarebbe aspettare che scatti il verde».
Lo vedo barcollare un po’, allora affondo il colpo: «Un conto è riconoscere che c’è stata una infrazione oggettiva, un altro è la mia imputabilità personale. Ad essere sinceri, credo che lei non solo non mi dovrebbe sanzionare, ma dovrebbe apprezzare il modo con cui sono passato con il rosso. E la legge che obbliga di aspettare il verde non verrebbe messa in discussione da questo. Guardi qui», e gli porgo i ritagli di giornale che ho con me. «Non lo dico mica io, ci sono fior di esperti: padre Spadaro sulla Civiltà Cattolica, il priore di Bose Enzo Bianchi, Famiglia Cristiana, Avvenire…. Lo dicono loro, ma è ovvio: non migliorerà certo il traffico continuando a multare tutti quelli che passano con il rosso…». 
Penso di averlo messo alle corde, ma forse ho interpretato male le sue espressioni. Risultato: multa, punti decurtati, e anche una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale.
Non riesco a capire il perché ma si era assolutamente convinto che volessi prenderlo per i fondelli.

Riccardo Cascioli su "La bussola quotidiana".

venerdì 1 aprile 2016

ALTROVE

Ecco una parola che non si sente pronunciare quasi più.
Forse perché un luogo che deve rimanere irraggiungibile per continuare ad essere pensato, sognato, immaginato, non appaga più in un mondo in cui i desideri devono essere esauditi, le mete raggiunte e i sogni realizzati subito o al più presto.
Si può però portare l'altrove con sé, luogo interno, stato d'animo, come un vento che di colpo trascina lontano, e allora lo si scopre tra le strade della propria città, in un paesaggio noto che all'improvviso si accende per una voce, un odore, una luce.
Il vero mezzo di trasporto è l'immaginazione, senza la quale non c'è distanza capace di trasformarsi in qualcosa che resti dentro di noi: i viaggi funzionano solo se la scintilla è già scoccata, qualcosa da cercare, qualcuno da incontrare, un'idea, un'ipotesi covata a lungo o solo intuita da verificare sul campo, non importa se si troverà tutt'altro.
La felice scoperta per caso, è il vero obiettivo di ogni ricerca.                    
Maria Pace Lucioli Ottieri (per la rivista Touring).

Queste belle riflessioni, attinte da una rivista di viaggi, mi hanno fatto riflettere su quello che è forse il problema principale dell'essere umano: pensare la felicità come un luogo collocato sempre altrove da dove siamo, immaginarla sempre come qualcosa d'altro da ciò che possediamo, identificarla sempre con una persona diversa da quella che ci sta accanto.
E non ci rendiamo conto che tale atteggiamento sta all'origine di ogni alienazione.
E' proprio quello che succede al figliuol prodigo della parabola evangelica: c'è un giovane che vive con un padre buono in una casa in cui non gli manca niente, e tuttavia sogna una felicità altrove.
Una volta abbandonata la casa, però, scopre che da solo non riesce a trovare pace in nessun luogo e si scopre a mangiare il cibo dei porci.
A questo punto la parabola dice che il giovane "rientrò in sé stesso" e si ricordò di suo padre, riconoscendo il valore di tutto ciò che aveva perduto.
Questa storia è il paradigma della condizione dell'uomo sulla terra: non riuscire a riconoscere i doni che possiede e cercare la propria realizzazione sempre altrove, salvo poi scoprire quanto importanti erano quei doni adesso che li ha rifiutati e perduti.