venerdì 27 febbraio 2015

I libri non hanno bisogno degli autori

“I libri non hanno alcun bisogno degli autori, una volta che sono stati scritti”, sostiene la scrittrice del momento: Elena Ferrante.
Dal premio Pulitzer ad Alice Sebold, passando per i recensori più taglienti del New York Times, del New Yorker, del Boston Globe e dell’Economist, Elena Ferrante ha conquistato non solo la più autorevole critica letteraria americana, ma anche personaggi insospettabili: il regista John Waters, che la elegge a sua musa letteraria e l’attrice Gwyneth Paltrow.
Ma chi è Elena Ferrante? Sembra che nessuno lo sappia con certezza.
Mentre i libri in cui l’autrice sembra raccontare molto della propria vita stanno spopolando nel mercato editoriale italiano ed internazionale, l'autrice non è mai apparsa in pubblico, né ha mai rivelato la sua vera identità.
Sappiamo soltanto che è napoletana (o napoletano, visto che anche il sesso è tutt'altro che certo), poiché dalla sua penna emerge una Napoli descritta come solo chi ci è cresciuto potrebbe fare.
Ferrante usa una voce narrante che negli ultimi romanzi sembra assumere tratti sempre più concreti: quello di una donna ormai sessantenne, una scrittrice, il cui nome è Elena.
È tutto nelle mie pagine, sembra dirci l’autrice, cercatemi lì se volete.
Ma alla gente questo sembra non bastare, vuole sapere; anche perché, e questo sorprende ancora di più nel paese dei segreti di Pulcinella, chi sia davvero la Ferrante resta un mistero anche nella stretta cerchia degli addetti ai lavori.
A parte i suoi editori, nessuno lo sa.
L’autrice è dispersa, esattamente come Lila, la protagonista “negata” delL’amica geniale':

Sono almeno tre decenni che mi dice di voler sparire senza lasciare traccia, e solo io so bene cosa vuole dire. Non ha mai avuto in mente una qualche fuga, un cambio di identità, il sogno di rifarsi una vita altrove. […]. Il suo proposito è stato sempre un altro: voleva volatilizzarsi; voleva disperdere ogni sua cellula; di lei non si doveva trovare più niente. E poiché la conosco bene, o almeno credo di conoscerla, do per scontato che abbia trovato il modo di non lasciare in questo mondo nemmeno un capello, da nessuna parte.

Ferrante pubblica da più di venti anni e forse la curiosità sulla sua identità è aumentata grazie al suo successo. Ma porta anche il segno di una crescente insofferenza per la sottrazione ai valori dominanti nell’età della trasparenza.
Come si permette di negarsi alla visibilità, di rifiutare il rito dei riconoscimenti, di irridere i meccanismi narcisisti trionfanti (o di inventarne uno tutto suo, oltranzista e spiazzante)?
In questi venti anni è come se il gesto semplice di non apparire avesse assunto un carattere equivoco solo perché contraddice una pretesa che, grazie alle tecnologie, si è insediata nella nostra sensibilità generando una nuova suscettibilità: tutto è accessibile, tutto si può (e dunque si deve) sapere.
La resistenza con cui Elena Ferrante si cela è perciò ammirevole: smaschera qualcosa di nascosto, evoca qualcosa di stregonesco, ovvero il dominio dell’onnipresenza.
E rende ridicoli i giochi di società intorno alla sua identità (a cui peraltro è ovviamente difficile sottrarsi).

domenica 15 febbraio 2015

Restare a bordo

Nel mondo dello spettacolo trent'anni di unione sono un record?
«Sì, una cosa da Guinness dei primati: una benedizione che mio marito e io ci piacciamo ancora e ci rispettiamo profondamente.
Siamo diversi: io produttrice e attrice e responsabile della tenuta qui in Toscana, lui eterno trovatore.
Ci siamo avvicinati, in questi trent'anni, non allontanati: uniti da rispetto e ammirazione, due individui che dividono la stessa sensibilità.
E anche se spesso siamo in paesi o continenti diversi abbiamo voglia di vederci, siamo fortunati: mi intristisce vedere amici che si arrendono così presto nel loro matrimonio se le cose non vanno per il verso giusto.
Quello che ho imparato io è che non puoi avere un matrimonio di trent'anni senza alti e bassi, devi stare a bordo, e quando un problema grosso lo risolvi il rapporto diventa più maturo.
Il matrimonio non può essere sempre una navigazione serena perché la vita non è una navigazione serena.
Ecco, la formula finché morte non vi separi noi l'abbiamo presa sul serio, non è una cosa che si dice in chiesa a vanvera e poi come va va. Cercheremo di stare insieme per sempre e lavorare insieme su quello che non va.
È una cosa poco rock? Da conservatori? Così sia»

Queste non sono parole di una donna devota e bigotta, ma nientedimeno che di Trudy Styler, moglie di Sting, la rockstar dalla quale ha avuto quattro figli. 
Oltre alla passione per la musica, condividono anche quella per l'Italia, dove vi si recano appena possibile: hanno comprato una casa immersa nel verde in Toscana.
Ed a questo proposito Trudy aggiunge:
qui Sting viene a scrivere la sua musica ogni estate». «L'idea che mi ero fatta della Toscana si era sviluppata attraverso l'arte, i dipinti religiosi del Rinascimento: ricordo che da bambina vidi un quadro rinascimentale illuminato dalla luce del Paradiso e quando, da adulta, venni in Toscana per la prima volta, vidi che quella non era inventata, non era l'ipotesi di come fosse la luce del Paradiso, ma era la luce della Toscana. 
Questo è il Paradiso, pensai quando arrivai qui per la prima volta, dissi a me stessa ecco quella luce. In Toscana è nata nostra figlia Coco, 24 anni fa, a Pisa, nel pieno dell'estate, nel pieno di quella luce».



venerdì 6 febbraio 2015

Trisomia 21

"Ho avuto come padre un uomo fuori dal comune che, per scelta, ha deciso di avere un destino fallito in partenza, un pessimista il cui realismo era animato da una formidabile speranza. In un mondo in cui non si parla che di sofferenza, miseria ed ingiustizia come poter affermare che la vita può essere bella, molto bella?».
Sono parole di Clara Lejeune, figlia di Jerome Lejeune, nato nel 1926 a Montrouge sur Seine, il primo scienziato a scoprire la più diffusa anomalia genetica, la cosiddetta trisomia 21, cioè l'alterazione che determina la sindrome di down, altrimenti detta mongolismo.

Sino alla sua scoperta si credeva che il mongolismo fosse una tara razziale, oppure che fosse determinato da genitori alcolisti o sifilitici. Lejeune dimostrò che non vi era nulla di disdicevole, nei genitori di quei bambini, nessuna degenerazione razziale, nessuna contagiosità, in quelle creature in cui era avvenuta la triplicazione di un cromosoma, un eccesso di informazione genetica, e che vengono colpite nella facoltà dell'intelligenza, dell'astrazione, anche se conservano integre affettività e memoria.
Per questa scoperta, e per altre che la seguirono, Lejeune ottenne innumerevoli riconoscimenti internazionali, premi ed onoreficenze. 
Nel novembre 1962, Jérôme si vede conferire il «premio Kennedy»; nell'ottobre 1965, diventa titolare della prima cattedra di genetica fondamentale a Parigi.
Tutto induce alla speranza: la sua scoperta e la pubblicità che ne viene fatta nel mondo scientifico, pensa, stimoleranno la ricerca, e permetteranno la predisposizione di cure idonee per guarire i bambini e dare una speranza ai loro genitori. Le famiglie dei malati, attirate dalla fama internazionale di Jérôme e dalla sua accoglienza, si rivolgono sempre più numerose a lui.
Egli cura diverse migliaia di giovani pazienti, venuti a consultarlo dal mondo intero o seguiti per corrispondenza. Aiuta i genitori a comprendere e ad accettare questa prova in una visione cristiana: questi bambini trisomici, creati a immagine di Dio, sono destinati a un avvenire eterno dove non rimarrà nulla delle loro infermità. Egli li conforta con la sicurezza che il loro bambino, nonostante un grave deficit intellettivo, traboccherà di amore e di tenerezza.
Nell'agosto 1969, la società americana di genetica conferisce a Jérôme il «premio William Allen Memorial», la più alta onorificenza che possa essere concessa a un genetista, e preludio alla sicura consegna del premio Nobel.
Fin dal suo arrivo a San Francisco, dove deve venirgli consegnata, Jérôme percepisce nettamente che si sta progettando di sfruttare la sua scoperta per autorizzare l'aborto dei trisomici.
Il pretesto è che sarebbe crudele, disumano, lasciar venire al mondo dei poveri esseri destinati a una vita inferiore, e che rappresentano un carico intollerabile per la loro famiglia. Jérôme trema: «Con la mia scoperta, si dice, ho reso possibile questo calcolo vergognoso!»
Dopo la consegna del premio, deve pronunciare davanti ai suoi colleghi una conferenza. 
Gli viene in mente una celebre frase di sant'Agostino: «Due amori hanno fatto due città: l'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha fatto la città terrestre; l'amore di Dio fino al disprezzo di sé ha fatto la città celeste».
Poco importa la sua quotazione nel mondo scientifico, parlerà, dicendo chiara la verità a tutti!
La natura corporea degli uomini, spiega, è contenuta tutta intera nel messaggio cromosomico, fin dal primo istante del concepimento; questo messaggio fa del nuovo essere un uomo, non una scimmia, né un orso; un uomo di cui tutte le potenzialità fisiche sono già incluse nelle informazioni date alle sue prime cellule.
A queste potenzialità, che saranno al servizio della sua vita intellettiva e spirituale, nulla sarà più aggiunto: è tutto lì.
Conclude con chiarezza: la tentazione di sopprimere con l'aborto i piccoli bambini malati va contro la legge morale, di cui la genetica conferma la fondatezza; questa morale non è una legge arbitraria.
Non un solo applauso: silenzio ostile o imbarazzato tra questi uomini che sono l'élite della sua professione.
Jérôme scriverà poi a sua moglie: «Oggi, mi sono giocato il premio «Nobel» di medicina»; tuttavia è in pace con la sua coscienza. 
Confida al suo diario intimo: "Il razzismo cromosomico viene brandito come un vessillo di libertà; che questa negazione della medicina, di tutta la fratellanza biologica che unisce gli uomini, sia l'unica applicazione pratica della conoscenza della trisomia 21 è più che uno strazio".
Purtroppo, negli ultimi anni la ricerca sulla sindrome di Down, non interessando più al mondo scientifico – in quanto il problema è risolto con l’aborto selettivo – è stata pressochè abbandonata; l'uomo ha dimostrato in questo caso di essere meno compassionevole dei cani, come dimostra il bellissimo video che segue. 
Jerome è salito in cielo nel 1994, lasciando quattro figli e ventisette nipoti; per iniziativa di Giovanni Paolo II, suo grande amico, la Chiesa ha dato iniziato al suo processo di beatificazione.